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Il paziente una persona prima che un malato

Cesena 12 marzo 1999

In questo incontro rivolto agli operatori sanitari, Enzo, poche settimane prima della sua scomparsa, ci ha lasciato una eredità profonda e consapevole che possiamo raccogliere

"la verità arriva sempre al cuore e alla mente, alla nostra libertà"

Siccome mi hanno detto che è una questione di esperienza, perciò non starei a fare svolgimenti scientifici piuttosto affronterei il problema dal punto di vista dell'esperienza così com'è. Capisco per me e intorno a me sia vero, perciò possiamo dare un contributo perché questo mondo della sanità sia più corrispondente allo scopo per cui è nato. In ogni caso vorrei fare tre esempi per introdurre. Il primo esempio che faccio sempre è come ho iniziato la mia professione. Finita medicina non sapevo bene cosa fare, avevo un 'idea sulla chirurgia, però non sapevo bene cosa fare in effetti e quindi ho girato in università tutti i chirurghi che c'erano e alla fine ho scelto (ero da solo, non

avevo tanti confronti possibili) quello che mi piaceva di più a prescindere che fosse il più bravo o no, e lì col senno di poi era meglio usare un altro criterio o perlomeno metterli insieme il più possibile. In Ogni caso era quello che mi piaceva di più, cioè mi sembrava incontrando tutti i chirurghi di allora che fosse quello che diceva. Così gli sono andato dietro e ho deciso di andare con lui e come i giovani fanno così anch'io ero estremamente entusiasta del mio maestro e lo seguivo in tutto veramente, lo imitavo tant'è vero che aveva un "tic" e l'ho preso anch'io. Ero letteralmente appassionato della questione e così lo guardavo come faceva i nodi, come trattava la gente e alla fine mi accorgevo che anch'io facevo quelle cose, ed è a mio parere una cosa giusta da un certo punto di vista. Poi un giorno abbiamo fatto un incontro tipo questo in università che tenevo io, era proprio sull' esperienza personale. Io lo avevo invitato, ma non pensavo che venisse e invece è venuto. Così in mezzo al gruppo dei ragazzi giovani c'era questo con la testa pelata; mi ricordo ancora quando l'ho visto entrare, ho pensato "questo mi rovina la carriera", mi sono fatto forza, ho cominciato a parlare con una proprietà che non avevo mai avuto, soppesavo le parole, non dicevo parolacce e nello stesso tempo tenevo sempre d'occhio il suo atteggiamento per capire se facevo breccia o no. E lui impassibile, con la faccia da militante svizzero. Quando è finito l'incontro lui si alza e va via e io lo blocco sulla porta-e gli dico: professore come è andata?" e lui sempre con la stessa espressione guarda e dice: "Piccinini sono cose da ragazzi queste, le fanno i ragazzi, la vita mi ha segnato. Anni di lotte, di questioni di sbagli. I ragazzi fanno le cose come voi così entusiasti. La vita a me mi ha costretto al compromesso. Lì mi è caduto il mito e ho perso anche il "tic". Ma è impossibile che una cosa vera sia vera solo per un'età. Questo è il primo problema che quello che è vero, la verità, qualunque essa sia in qualunque forma si presenti ha sempre un accento che arriva direttamente al cuore poi dopo altro è il fatto che uno riesca ad impegnarsi sul serio su quella roba lì. La verità ti colpisce sempre ma nella misura in cui gli fai spazio è un disastro, ti cambia la vita e allora cerchi qualcosa che non ti impegni troppo così però quello che rimane chiaro è che la verità arriva sempre al cuore e alla mente, alla nostra libertà e infatti quella è stata la prima cosa per cui mi sono reso conto che c'è un modo di abdicare alla sensibilità umana nel nostro lavoro, sensibilità al vero che è drammatico perché si perde la voglia di lottare, di imparare, si diventa "mestieranti" in un posto dove il mestiere è solo frustrazione.

"a me un certo Don Giussani mi ha insegnato a fare il chirurgo"

La seconda questione è che un giorno (era la giornata del malato) mi hanno chiamato in un grande ospedale di Bari a raccontare l'organizzazione della mia unità di chirurgia, così come facevo io con i miei assistenti, gli infermieri, l'ambulatorio ecc. Io ho raccontato con impeto spiegando perché facevo certe cose cosa dicevo, i due meeting settimanali in cui insegno pazientemente le questioni di metodo, insegno come si fa col malato; l'organizzazione, il senso del gruppo, il senso dell'autorevolezza intesa come riferimento. Alla fine uno si alza e mi chiede dove ho imparato queste cose. Certo sono stato in America, in Inghilterra, dovevo essere chiaro e così di fronte a quell'enorme platea di primari, chirurghi, ecc. ho detto: "capisco che risveglierò molte perplessità a dirlo però a me un certo D.Giussani mi ha insegnato a fare il chirurgo". Avete presente la platea, un gran brusio. Non è che mi ha insegnato a tagliare, le tecniche, quello l'ho imparato io. Mi ha insegnato una posizione umana per cui la tecnica, il malato, la gente che c'è intorno, quello che faccio di me stesso, come gestisco la risorsa umana che sono, come divento imprenditore di me stesso, sono tutte cose importanti, definitive ed è per questo che per quel che sono e per come sono adesso posso dire che professionalmente ho un gusto a fare le cose che vedo raramente negli altri, ma non per vana gloria, non è mica merito mio mi sono trovato coinvolto in un'avventura così.

"la libertà significa non aver paura di sbagliare, non perché sei superficiale ma se hai paura di sbagliare non fai più niente"

Ed era vero perché, per farvi capire, un ultimo episodio, il più eclatante. Mi aveva telefonato una domenica mattina da Milano che una malata si era complicata, non ce la faceva, l'avevano già operata due volte ma non andava bene. Stava pian piano declinando, è una donna di 40 anni. Mi dicono se potevo fare qualcosa. In quel periodo avevo avuto il concorso per cui avevo il problema che in quell'ospedale c'era uno della commissione. Mi ha preso il panico però nello stesso tempo era richiamato da amici che mi chiedono una mano e mi dicono di presentarmi come cugino di uno di loro. Così sono andato. Dopo qualche giorno mi chiedono di trasferirla a Bologna da me. Ed è arrivata, era un disastro; credo di non aver mai visto tante fistole in vita mia. Da Milano mi avevano detto di non metterci le mani. Io l'ho studiata ed a un certo punto bisognava operarla, sono arrivato a un punto di grande stress e ho telefonato a Don Giussani. Tutto questo ha una logica che spiegherò dopo, una logica reale nella nostra vita e gli ho detto:"senti qui bisogna operare perché i dati sono questi, però tutti quelli mi dicono che l'ammazzo siccome è anche tua amica, cosa facciamo? Io in cuor mio ho deciso e non è che ti chiedo l'indicazione chirurgica ma siccome è domani mattina che devo operarla ho bisogno di una consolazione perché non so cosa può succedere". Lui mi ha risposto dicendo: "senti, hai fatto bene ha chiamarmi, non ti vergognare perché ci vuole una consolazione in queste decisioni. E la consolazione non è che uno ti risolve il problema ma è una compagnia che ti rende più ovvio quello che è più difficile. Hai fatto bene a chiamarmi, secondo me di fronte agli uomini non lo so, ma di fronte a Dio bisogna andare". E' una cosa fantastica perché io non potevo parare tutti i colpi però i dati sono la realtà e se i dati portano lì, la realtà come la penso io non è a caso, c'è Qualcuno che la fa. Se i dati portano lì, non puoi far diverso anche se hai mille dubbi, ti dicono mille cose, se i dati portano lì è la realtà che ti porta lì e la realtà non è a caso. Ci vuole una certezza di fondo e poi mi ricordo che mi ha detto: "ricordati che la libertà significa non aver paura di sbagliare, non perché sei superficiale ma se hai paura di sbagliare non fai più niente". E' interessante perché è vero, chi ha paura di sbagliare calcola solo, è impressionante! E lì sono andato, poi potete immaginarvi, gli ho telefonato dopo 4 giorni perché non sapevo come andava a finire. La risposta è stata: "perché avevi paura che andasse male? Ricordati ancora di un'altra cosa: ti ringrazio perché sei stato strumento di un miracolo". Significa che tu non hai niente da esaltarti, il senso cristiano della vita, tutto quello che fai ultimamente il compimento non dipende da te. E questo ti rende veramente libero di tentare e di ritentare, anche di fronte a un errore.

"è il senso del limite che ti mette di fronte all'altro uomo immediatamente insieme"

Il terzo esempio è proprio inerente alla mia professione. Un giorno facendo lezione agli studenti ho fatto un colpo di mano e li ho portati nel mio studio, mi sono messo di fronte e ho detto:" perché fate medicina?". Mi hanno guardato come se non ci avessero mai pensato, sono al 6° anno! Poi sono arrivate le risposte più banali: il mio papà ha già lo studio, ho letto il tale libro. Poi da dietro si sentiva parlottare e uno mi dice:" senta professore noi siamo venuti a fare lezione perciò se lei vuole andare avanti con queste domande filosofiche lo dica perché noi andiamo a casa". Io ho dovuto far lezione, non potevo fare diverso. Vi rendete conto? La censura di qualunque domanda di utilità, di senso di scopo al 6° anno di medicina quando uno ha in mano qualcosa che usa che prima o poi è una licenza di uccidere. Che uno in qualche modo non si domandi perché lo fa è un disastro totale. Che non risponda a niente nessuno di quel che fa è un disastro totale. Avendo sempre a che fare con delle persone! E lì mi sono reso conto di che cosa poteva essere una formazione di ragazzi, di giovani come io del resto avevo avuto, in cui questa domanda che decide del come si usano gli strumenti che usi. Il senso dello scopo decide degli strumenti che usi, e io ne uso tanti, della decisione che devo prendere, mi fermo vado avanti. Cosa lo decide altrimenti, come del resto decidi di tutta la vita della propria famiglia ecc. Ma lì è ancora più decisivo istante per istante, non rispondere a niente e a nessuno è veramente una formula drammatica, assurda. Bene, vi ho detto tutto questo perché se io penso a me ci sono alcune cose che mi colpiscono molto e poi dico il punto. La prima cosa è che per quel che mi riguarda io ho a che fare con la malattia, con l'uomo malato, col dolore e la morte. Ecco per quel che mi riguarda questa è l'espressione normale del limite dell'uomo. La malattia, la sofferenza, il dolore e la morte è l'espressione normale ma più acuta del limite dell'uomo del fatto che l'uomo è limitato e che questo non può essere mai tolto dalla consapevolezza della nostra vita. Che io crepo è una verità, che voi crepate è una verità. La consapevolezza di questo porta già di per sé una serietà nella vita, non di gente che si batte il petto. E' proprio la consapevolezza che la vita ha un suo limite e che questo limite se entra dentro la coscienza normale dei nostri rapporti decide da subito di una capacità di rapporto altrimenti impossibile. E' il senso del limite che ti mette di fronte all'altro uomo immediatamente insieme anche se non è della tua idea, anche se non capisce, anche se non ti guarda nemmeno. Perché come lui anche tu sei bisognoso e per essere te stesso anche tu hai bisogno. Il fatto che ci si innamora lo documenta che abbiamo bisogno di qualcos'altro da noi per essere noi stessi. Allora è interessante, la malattia, il dolore, la morte stessa è il segno che più mi ricorda che l'uomo ha un limite e che la vita umana non può vivere al di fuori di questa consapevolezza, e che questa consapevolezza che sembrerebbe di per sé una strana condanna presa sul serio nei rapporti immediatamente determina una apertura e una capacità di rapporti altrimenti impossibile. Se io vi guardo e sento quello che ho detto capisco che qui siamo insieme di schianto non perché la pensiamo tutti alla stessa maniera ma perché siamo tutti bisognosi alla stessa maniera. Mettere a tema questa cosa qui quando si va a lavorare e quando si è coi nostri pazienti è decisivo. Che razza di pazienza ne nasce! Che razza di ripresa continua ne nasce, non c'è bisogno di teorizzare il servizio, lo si fa per davvero. Infatti proprio per questo, scusatemi, siccome questo è un senso cristiano acuto della vita e siccome per me cristiano significa umano altrimenti non sarei nel cristianesimo nemmeno dipinto sul muro non è che non avevo altre alternative nella vita. Se ho scelto questo stile di vita è perché ho visto che conviene alla mia umanità. Proprio per questo è vero che i cristiani sono stati quelli che hanno inventato gli ospedali ma perché se non per questo acuto della malattia e del dolore come senso del limite normale della vita e che perciò è una cosa di cui prendersi carico. Poi se voi vi ricordate gli ospedali sono nati non tanto per curare la gente ma per assistere gli incurabili, non quelli che ti danno gusto perché guariscono, li accompagnavano a morire Perché? Perché i cristiani non hanno paura del limite e proprio per questo lo condividono e lo portano con sé e da questo punto di vista è impressionante come invece nei nostri ospedali questa cosa qui sia fatta fuori. E perciò è chiaro che il problema diventa difficile nei rapporti. Il cristiano non si scandalizza del limite ma lo abbraccia e infatti la questione degli incurabili nella storia è la cosa più impressionante, e uno se lo prende a cuore.

"non c'è niente di più devastante di uno che ha il cancro e non può fare un'esperienza umana della sua situazione"

La seconda questione, sempre della premessa è che per me, come mi è stato insegnato dalla tradizione cui faccio riferimento la consapevolezza del senso della vita significa che io non ho il problema di aiutare gente che vedo morire, ma a vivere consapevoli che c'è la morte, questo sì. Mi ricordo di uno che venne da me già operato di cancro del pancreas in un altro ospedale. Un uomo di una violenza incredibile. La figlia mi ha chiesto di intervenire. Bisognava fare una pancreasectomia totale, un intervento molto pericoloso. Ho convocato il malato e gliel'ho detto. Lui ha accettato e io gli ho detto di andare a casa, fare testamento e poi tornare. E gli ho detto: " sappia una cosa da adesso in avanti io sarò con lei a qualunque conseguenza". E' andato avanti 8 mesi però almeno non è morto coi dolori del cancro del pancreas. E fino alla fine io andavo a casa sua, e alla fine la moglie e i figli mi hanno chiamato perché dicessi a lui che doveva morire. Gli ho detto: "senta le cose si sono complicate molto, può succedere tutto da un momento all'altro. Bisogna che si prepari". Lui mi ha guardato con uno sguardo prima arrabbiato poi si è commosso e ha detto: "vede (guardando la finestra bagnata per la pioggia) siamo come quelle gocce. Finchè c'è il filo ci tiene poi quando si stacca il filo siamo finiti". "C'è un'unica cosa, che tiene quel filo è uno che ci vuol bene e tornare da Lui non è male, e poi faccia quello che vuole". Lui si è messo a piangere poi si è confessato e comunicato ed è morto dopo 2-3 gg.E' il problema del fatto di vivere consapevoli che c'è la morte e prendersi a cuore fino in fondo chi hai davanti. Perché, per esempio, non c'è niente di più devastante di uno che ha il cancro e non può fare un'esperienza umana della sua situazione. E' un disastro se di queste cose non si può fare un'esperienza e non c'è niente oggi che sia più devastante di questo. Ci si prende a cuore e in quell'esperienza lì che nella maggior parte dei casi è "a perdere" che uno non possa fare esperienza della malattia è devastante. Si rovina la famiglia, è devastante!

"l'unità della vita è la cosa più importante la vita è unita se si mette il cuore in quel che si fa"

E noi abbiamo una responsabilità in questo, non possiamo fare i "mestieranti", impossibile! Perché la serietà è proprio per il fatto che si risponde a qualcuno e a qualcosa di quel che si fa e non solo di quel che si sente. Altrimenti ci si alza al mattino e come ha girato la sera si comincia a lavorare coi pazienti. Allora scusatemi, dico il punto e chiudo. Il punto è che c'è un problema che ciascuno di noi registra nella sua vita: è che uno vuole da una parte essere felice (ed è il desiderio che sintetizza tutti i desideri e per cui si è fatto tutto: uno va a lavorare, a divertirsi, fa famiglia per questo). Da una parte c'è questo, questo desiderio che abbiamo dentro e che non lo si può ridurre mai perché rinasce sempre, non si può mai nemmeno dargli una risposta parziale perché la risposta non è né lo stipendio, né la donna, né la famiglia, è un compimento che vive dentro tutte queste espressioni ma rimane sempre vivo. Dall'altra parte c'è la realtà che spesso non ha certamente a cuore la felicità di chicchessia. Allora il problema è l'unità della mia vita, come la mia vita può stare unita, a casa mia, in ospedale, con mia moglie, con la gente che mi vuole bene, con la gente che mi vuole male, col mattino che vado a lavorare e trovo quell'ambiente così teso che si sta male solo a vederlo. Con certi trattamenti ingiusti che puoi avere anche dalla struttura, ma anche da altri. Ora, come fa la mia vita a essere unita. Questo è il punto più importante di tutta la vita di ciascuno di noi, nella malattia come nello star bene. Come fa a essere unita, a essere la stessa vita. L'unità della vita è la cosa più importante del mondo, non ci si può dividere, non ci si può frazionare, non è un mosaico giustapposto di situazioni. E' possibile? Secondo me sì. Il problema è l'unità della vita perché quello che io ho detto del malato, dell' ospedale, dei ragazzi che fanno medicina riguarda la mia famiglia ecc. Ma come è possibile che la vita sia unita col suo desiderio di felicità insopprimibile. E' la frase che userò sempre, che non smetterò mai di usare. La vita è unita se si mette il cuore in quel che si fa. Ma il cuore non come sentimento, il cuore come quella esigenza insopprimibile di felicità che ha sempre e a cui da solo non riesci a dare risposta. Che tu possa mettere il cuore, cioè il tuo desiderio di felicità completo, veramente intero in tutto quello che fai: situazione facile o difficile, sopruso che hai o piuttosto via libera, fatica o facilità, famiglia o lavoro. Che tu possa mettere il cuore davanti al computer o davanti alla situazione più esaltante. Il cuore come esigenza di felicità insopprimibile del vero del bello, di amare, di essere amati, del giusto che si possa mettere ovunque. Come è possibile metterlo ovunque in una situazione come la nostra dove se c'è una cosa che è in più è veramente il senso della persona oppure che tutti pensano che sia umanitario il lavoro perché c'è di mezzo la persona, c'è di mezzo l'uomo e allora è umanitario di per sé e sto dicendo di brave persone e non di quelli che se ne fregano. Ma questo è un umanitarismo si bassa lega. Oppure che il problema è usare la tecnica in modo perfetto perché si ha a che fare con delle persone. Come se queste cose fossero il problema della nostra vita e della nostra professione. In una situazione in cui appunto nella migliore delle ipotesi è tecnica oppure un umanitarismo di maniera. Come le prime volte che lavoravo in America perché in ospedale uno ti chiede come stai e non fai in tempo a rispondere che lui è già andato via. L'umanitarismo di maniera, non serve. C'è un'intensità nel rapporto umano in cui tutte queste cose possono aiutare, ma è ben altro il rapporto umano vero. Bisogna mettere il cuore in quel che si fa, non è un problema di umanitarismo di maniera, non è un problema di gioco di tecnica. Mettere il cuore in quel che si fa, cioè mettere il proprio desiderio di felicità insopprimibile, in tutto quel che si fa. Domani mattina incontrando i miei pazienti se metto questo riconosco in loro lo stesso desiderio o comunque li guardo diversamente.

"Bisogna non essere soli"

Solo che per far questo, ci vuole qualcosa di più grande di sé nella vita a cui rispondere. Altrimenti la valutazione di quel che ti danno, che non ti danno, dell'esito delle questioni uccide qualunque desiderio di felicità. Ci vuole qualcosa di più grande per cui anche le situazioni che non capisci hanno senso. Ci vuole qualcosa di più grande per cui devi ammettere che puoi anche non capire, che può anche andare come tu non vuoi. Del resto non so come fate se siete sposati a vivere perché non va mai come si vuole. Ci vuol qualcosa di più grande per essere liberi. Cioè la vita non è in mano nostra, io non mi faccio da me e perciò per questo c'è qualcosa di più grande e comincio ad ammettere che anche quello che non mi va ha un senso, può avere un senso, posso non capire. Solo che non basta. Adesso gli amministratori mi dicono anche che tecnica devo usare, è una cosa assurda. Non c'è nessuna possibilità di un confronto e di una verifica. Poi dico a certi miei colleghi: " ma voi dove vi verificate, guardate internet?". Se questa è la verifica! Quando tu poi fai qualche passo in più verso il paziente (e gli infermieri questo lo sanno bene), gratis vengono guardati subito male dagli altri e se uno si ferma un po' di più oltre il turno: "cosa ci vuoi guadagnare?". E' così. In un ambiente così hai voglia di dire che c'è qualcosa di più grande, non si resiste, dopo un po' anche il meglio intenzionato non ce la fa. Bisogna che questo qualcosa di più grande sia una esperienza che uno fa, ma diciamo di più, che questo qualcosa di più grande sia qualcuno o qualcosa cui si risponde, che sia presente. Come faccio io qualche volta che chiudo gli occhi, vedo la faccia degli amici e riprendo. C'è una realtà cui faccio riferimento e riprendo. Ma diciamo ci vuole senso cristiano perché ciò vuol dire che io rispondo a qualcuno o qualcosa che c'è anche se non è misurabile e non a quello che sento e che penso. E questo mi rimette in moto. Ma non basta nemmeno questo, non basta nemmeno un senso cristiano della vita. Perché le situazioni sono tali per cui veramente è impressionante come non si riesca a saltarci fuori umanamente. E uno diventa meschino, mica perché lo vuole. Cosa ci vuole, è l'ultima condizione. Bisogna non essere soli. Il vero problema è qui, ci vuole un punto di appoggio. Senza un'appartenenza che vuol dire senza qualcosa a cui appartieni, a cui fai riferimento e per cui il tuo io non è solo un io sbandato e sbandabile ma ha radici in volti persone e storia a cui fa riferimento. Altrimenti non ci si fa, né col senso più grande, né col senso cristiano, bisogna non essere soli. Ecco questo è il punto, medici o no, definitivo. Anche perché così non si perde la voglia di lottare. E, nel tempo pian piano vi giuro che comunque il gusto non è negato a chi sbaglia, è negato a chi non ha appunto un senso di Mistero nella propria vita cioè di qualcosa di più grande, presente che è una compagnia cui appartiene, un gruppo, un'amicizia vera.

Tracce, N. 5 - maggio 2003

Bologna
Senza Presenza, niente di niente

Enzo Piccinini

Il 27 marzo 1999, due mesi prima di morire in un incidente stradale, il nostro carissimo Enzo Piccinini ebbe un incontro con un gruppo di operatori sanitari di Rimini. Ecco alcuni appunti di quel dialogo

Solo quando non si ama niente le cose possono passare accanto senza lasciare traccia, ma per il fatto che esistono sono già di per sé un grosso interrogativo. Il vero problema è se ami o no, se sei con la faccia rivolta al tuo stomaco o se guardi la realtà come una continua scoperta di qualcosa che non è tuo. Questo vale per chiunque: quando sei a casa tra i fornelli o a pulire il giardino come quando sei in sala operatoria. È chi decidi di amare che fa la differenza, ma amare in questo caso è spogliato da ogni caratteristica sentimentale: è, nuda e cruda, laffermazione dellaltro.
Da questo punto di vista, è interessante quello che deve cambiare nella nostra specifica professione, nella quale spesso il rapporto viene confuso con una certa familiarità un po corposa. Non è amore quello, non è umanità. Amare è innanzitutto un giudizio e un legame profondo, è sentire che laltro centra con te stesso e che quello che fai centra con laltro. Chi hai di fronte è un intero, non è un pezzo da trattare. Per questo il nostro lavoro non è esclusivamente un problema di tecnica. Tanto è vero che è ormai accertato che lo stato psicologico del paziente, chiunque si abbia di fronte, decide del processo di guarigione dal 30% al 40%, in alcuni casi fino al 50%. Perché? Perché luomo è uno, e la medicina non è solo tecnica. È una considerazione globale che decide del rapporto.
Non cè una realtà senza il suo significato, perché non cè la realtà senza il Mistero. Non lho fatta io e non è giustificabile solo col particolare che vedo io. Cè qualcosa di più grande di me e di te, che è presente misteriosamente, rispondendo al quale cè veramente quello che cè. Se no, cè solo quello che senti, quello che ti va e che hai deciso tu. Nellinserto sul lavoro (Tracce, n. 11 dicembre 1998; ndr) don Giussani è fantastico: non spiega il lavoro, ma ne dice la condizione di fondo: parla del lavoro come dellaspetto ideale dellamore a Cristo. Che significa: a chi rispondi lavorando, a chi e a che cosa? Certo, tu rispondi al capoufficio, ma alla fine la risposta è a qualcosa per cui tutto esiste, per cui tutto è degno di rispetto e di tempo. Senza la Presenza non cè niente di niente. Nemmeno tua moglie è presente senza il Mistero: di solito, invece, per noi è presente perché la senti; e quando non la senti non cè più. Al contrario, se cè la Presenza, tua moglie cè anche se non la senti, anche se non ti va più. Così è la vita. Questo è il problema; tolto via questo, esiste solo listintivo rapportarsi.
Dunque, o si ragiona come tutti o si cambia pelle. Quello che abbiamo incontrato ci insegna che il Mistero esiste nella realtà e questo decide dellincidenza che abbiamo nel nostro lavoro e nel rapporto con la realtà. Allora si capisce che cosa vuole dire pregare e che cosa vuole dire la comunità.
Vi ricordate la frase: «Ama chi dice allaltro: Tu non puoi morire»? Amare significa affermare laltro, cioè dire allaltro che deve esistere, affermare il suo destino, da dove viene e dove va. Il rapporto tra moglie e marito è emblematico, in questo senso: sono due libertà che devono essere complete e definitive; il termine del rapporto non può essere lidea che la mia libertà finisce dove inizia la tua. Il matrimonio è affermare quello che realmente ci tiene insieme: lavvenimento del destino. Perché siamo insieme? Perché abbiamo capito che con tutto il nostro volerci bene, la garanzia dellorizzonte del desiderio che avevamo nel cuore necessitava di qualcosa daltro e abbiamo chiamato Cristo a essere testimone del nostro amore.
Bisogna cambiare mentalità, se no ci si accontenta di ragionare come ragionano tutti. Che cosa vuole dire che partiamo da una mentalità diversa?
Innanzitutto bisogna riconoscere che diverso non è qualcosa che si pensa, ma qualcosa che avviene: cè qualcosa che si pone, impensato. Il diverso per noi è un avvenimento, non è un pensiero e neanche un comportamento. Noi non abbiamo un certo manuale di regole di buon comportamento in famiglia, piuttosto che sul lavoro o altrove. Questo non è in bilancio. Il diverso per noi - per cui non ci arrendiamo mai - è che è avvenuta una cosa straordinaria: Dio è diventato Cristo, e questo è accaduto in una cosa esistenzialmente a portata di mano che si chiama incontro.
È uno shock che succede nella vita: nella misura in cui lo ospiti, questo cambiamento si dilata e prende tutto fino alle viscere, fino ai particolari, fino alluso di tutto. Come si documenta nellesperienza questo ospitare qualcosa che è successo? Nel fatto che divento me stesso seguendo un altro. Allora il problema non è più se sbagliamo o no, ma lobbedienza, che è un punto di vista anche sullerrore. Esistenzialmente questo è un cammino, per cui luomo nuovo non è colui che non sbaglia, luomo capace, allaltezza.
Per tutto questo ci vuole un coraggio che uno da solo non si dà. Tutte le volte che sono andato da don Giussani a chiedere consigli su certi miei atteggiamenti professionali, non gli ho mai chiesto di dirmi che cosa dovessi fare, ma una consolazione nel fatto che dovevo decidere. Se non cè una consolazione, uno è disperato. Per questo siamo insieme, per sostenerci nella nostra battaglia quotidiana.
Tutto il lavoro di oggi è per renderci partecipi di questa vita immeritata e questo comincia a prendere un po di affettività nella nostra vita, ma la nostra vita dovè che gioca tutto? Nellambiente. È chiaro che lambiente è tutto, ma cè un punto nellambiente che o esiste perché prendi i soldi o esiste per qualcosaltro. Cominciamo a pensarci.